Francesca Woodman

fotografie dalla collezione di Carla Sozzani
a cura di Maria Savarese
11 gennaio_10 marzo 2019

Francesca era una persona fortissima con una grande volontà e insieme una fragilità tenerissima. Forse l’arte bisogna farla proprio in questa maniera. Forse bisogna avere questa pelle scoperta e insieme una grande forza[1].
Giuseppe Gallo

E’ il 1977: durante l’estate Francesca Woodman arriva a Roma per seguire i corsi europei del RISD, la scuola di design che già frequentava a Providence, negli Stati Uniti.

Non era la prima volta per lei in Italia. La famiglia, infatti, aveva acquistato un casolare ad Antella, vicino Firenze, dove sin da bambina trascorreva le vacanze estive, e dove visse per un anno intero tra il 1965 e il 1966. Il clima artistico familiare – sua madre Betty è stata una celebre artista, ceramista, il padre George, pittore e fotografo, suo fratello Charlie, videoartista – e i soggiorni in Italia, dove ebbe modo di conoscere ed appassionarsi all’architettura, alla pittura ed alla scultura rinascimentali, hanno certamente contribuito ad arricchire il suo linguaggio fotografico.

Il primo autoscatto risale a quando lei aveva solo tredici anni: l’artista è presente nella foto seduta su una panca con addosso un voluminoso maglione, con il viso completamente coperto dai capelli ed in mano il filo dell’autoscatto, consapevole delle proprie intenzioni fotografiche.

A Roma Francesca inizia a frequentare, non a caso, la libreria Maldoror stringendo amicizia con i due proprietari, Giuseppe Casetti e Paolo Missigoi; qui conosce anche Sabini Mirri la quale, fra il Caffè della Pace e la galleria di Ugo Ferranti, le presenta Giuseppe Gallo e gli artisti che da poco si erano traferiti nell’ ex Pastificio Cerere, “il gruppo” della cosiddetta Nuova Scuola Romana o di San Lorenzo, Giuseppe Gallo, appunto, Nunzio, Gianni Dessì, Piero Pizzi Cannella, Bruno Ceccobelli e Marco Tirelli.

Non a caso perché, come spiega molto bene Giuseppe Gallo: “ciò che ci univa era un comune punto di vista sull’arte. Al Pastificio lei si trovava bene perché avevamo un pensiero affine al suo. Le sue idee artistiche erano più vicine alla pittura e alla letteratura che alla fotografia in senso stretto. Francesca usava la fotografia per raccontarsi ed esprimere la gioia, il dolore e la sua idea delle cose. Anche i disegni sono molto belli, le lettere appassionate e le foto fanno parte di una visione artistica molto articolata, impossibile da circoscrivere ad un solo linguaggio espressivo”[2]. Negli stanzoni dell’ex Pastificio, l’artista ambienta parecchi scatti, attratta dalle pareti rovinate, dai finestroni, dai soffitti alti, dalla poesia che si respirava.

Con Ceccobelli, Gallo, Angelo Segnari e Dessì, e non con altri fotografi[3], la Woodman espone un anno dopo nella sua unica collettiva italiana, “Cinque giovani artisti” alla galleria di Ferranti; e allo stesso periodo risale anche la sua personale alla libreria Maldoror, preparata in modo meticoloso e preciso, come ricorda Giuseppe Casetti: “Il suo lavoro la impegnava dalla mattina alla sera. Francesca cercava costantemente intuizioni e sperimentava le sue capacità all’interno di una continua e stimolante ricerca. Il giorno dell’inaugurazione lei non venne”[4].

Tra le fotografie realizzate a Roma anche Untitled, 1977 – 1978, scelta per presentare questa prima mostra monografica a Napoli dedicata all’artista statunitense, presso la galleria Al Blu di Prussia, che rientra nel più ampio progetto espositivo “Between Art & Fashion”- Fotografie dalla collezione di Carla Sozzani” al Museo Villa Pignatelli – Casa della Fotografia, realizzato in collaborazione alla Fondazione Sozzani e alla Fondazione Mannajuolo e per la prima volta in Italia dopo le tappe di Parigi, Le Locle in Svizzera e Berlino.

Il percorso in galleria si articola in un nucleo di 15 fotografie attraverso cui è possibile ripercorrere le tappe della sua breve ed intensa vita artistica, terminata volontariamente il 19 gennaio 1981, quasi quarant’anni fa, a soli ventitré anni. Tre video girati dall’artista fra il 1975 e il 1978 completano l’esposizione.

Prima del suo anno romano – a cui risalgono anche altre due foto in mostra, Untitled, Roma, 1977 – 78, scattata nelle stanze di via degli Ausoni, e November has been a slightly unconfortable baroque 1977 – 79, in realtà ambientata nella sua casa toscana ad Antella – ed in seguito al suo rientro, la Woodman lavora a Providence dove frequenta una famosa accademia di belle arti: la Rhode Island School of Design fra il 1976 e il 1979, anno in cui si trasferisce a New York.

Appartengono a questo intenso momento creativo, dieci immagini esposte Al Blu di Prussia in cui sono definiti i tratti fondamentali e costanti della sua poetica e della sua ricerca: la coincidenza dell’io narrante col soggetto della fotografia, l’autoritratto, la scelta dell’autoscatto, la composizione spaziale secondo direttrici pittoriche, la dimensione privata, il rapporto fra corpo e spazio. Così come appaiono marcati gli influssi surrealisti, l’arte di Max Klinger, lo studio della fotografia di Man Ray e Duane Michals, l’arte antica, l’architettura rinascimentale e i pittori dal Tre al Cinquecento.

Rientrata in America, l’artista è presente sulla scena espositiva newyorkese nel novembre del 1979 con una personale alla Wood – Gerry Gallery, in cui per la prima volta decide di ingrandire il formato di stampa delle fotografie, di smettere di fotografare solo se stessa e di rompere con la consuetudine di installare le opere all’altezza degli occhi, posizionando le immagini fotografiche o molto in alto o quasi in linea con il pavimento. E’ in questo periodo che sperimenta la tecnica della cianografia con il risultato che gli oggetti e le figure in stampa assumono forme quasi spettrali, come le radiografie, con il tipico colore blu ciano. A questa ultimo momento di vita e di sperimentazione si riferiscono due foto in mostra, Untitled, New York, 1979 – 1980, e Untitled, 1980, stampa diazotipo esposta per la prima volta in occasione di questa personale napoletana.

Nel gennaio del 1981 Francesca Woodman dà alle stampe uno dei sei quaderni fotografici progettati a Roma: Some Disordered Interior Geometries, in cui applica fotografie su un vecchio quaderno degli anni Trenta di esercizi geometrici trovato nella libreria Maldoror. Il 19 di quello stesso mese, si toglie la vita.

I tre video proiettati nella sala cinema della galleria – utili per capire il metodo di lavoro dell’artista e il clima in cui opera, ed emozionanti perché restituiscono l’intensità del momento specifico del suo atto creativo – secondo il padre George, furono realizzati nell’autunno del 1976[5], non si sa se considerati da Francesca opere compiute, ma comunque mai esposti in pubblico da lei.

Anche se girati da una mano incerta e con tagli bruschi al montaggio, i lavori sono molto interessanti e in tutti l’artista è presente come modella e regista di una scena realizzata da un operatore che si muove sotto sue precise indicazioni.

In un primo video, di raffinata poesia, Francesca, inquadrata dalle ginocchia alle spalle, è in controluce, dietro un rotolo di carta sistemato come uno schermo o una tela su cui lentamente scrive il suo nome, che successivamente inizia a squarciare all’altezza dell’ombelico fino a farlo scomparire, apparendo, nuda, mentre esce dalla scena.

Il secondo, un’inquadratura fissa sul suo volto coperto da una maschera che la ritrae, può essere concepito come un contraltare video alla foto Face, Providence, Rhode Island, 1976 presente in mostra, in cui, seduta, è inquadrata a mezzo busto con le gambe divaricate e il pube coperto da una maschera di gesso, da interpretare in chiave simbolico – identitaria, nel senso di persona/maschera.

Infine, nel terzo, secondo George Woodman ispirato da un episodio realmente accaduto, quando un camion di farina si rovesciò davanti casa loro, l’artista entra in una stanza indossando un cappotto nero, si posiziona in un angolo illuminato da un grosso finestrone nel suo studio di Providence, si spoglia, cosparge di farina il suo corpo e lo spazio e, dopo essersi sdraiata sul pavimento, si alza lasciando la propria impronta: è percepibile un audio in cui guardando la sua impronta sul pavimento ride, esclamando “E’ una bella figura! Sono proprio soddisfatta!”.

Il clima in cui lavorava e viveva, quindi, era sereno e rilassato, non in antitesi comunque con la sua visione profonda e problematica dell’esistenza, permeato da quella stessa serenità, ironia, dimensione anche ludica, fantasiosa, non convenzionale che si percepisce in tanta parte della sua produzione e che ha spinto l’amico Giuseppe Casetti ad affermare con convinzione che Francesca Woodman sia morta non per disperazione, ma per eccesso di vita.

 

Maria Savarese

[1] Giuseppe Gallo, Intervista a Giuseppe Gallo, in Isabella Pedicini, Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola, Roma, Edizioni Contrasto, 2012, pag. 124.

[2] Giuseppe Gallo, Intervista a Giuseppe Gallo, in op. cit. pag. 127.

[3] “All’inaugurazione Francesca era sfuggente e in disparte, però era una ragazza che voleva farsi vedere e si vestiva in modo molto personale. Se la vedevi per strada subito la notavi”, Giuseppe Gallo, Intervista a Giuseppe Gallo, in op. cit. pag. 126.

[4] Intervista a Giuseppe Casetti, in op.cit., pp.120 – 121.

[5] Isabella Pedicini, op.cit., pag.64.

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