Fuori dal tempo – Gian Paolo Barbieri

21 ottobre 2022_28 gennaio 2023

In esposizione (sino al prossimo 28 gennaio) un corpus di 18 grandi immagini in bianco e nero selezionate tra quelle tratte dalla Trilogia del mare “Madagascar, Tahiti Tattoos, Equator”, della fine degli anni ’90 e da “Dark Memories” del 2013 cui si aggiungono 24 polaroid quasi tutte inedite per lo più scattate alle Seychelles tra il 1986 e il 2006, completato dal documentario sulla vita del fotografo “Il magnifico artificio” per la regia di Francesco Raganato (SkyArte 2014) proiettato nella sala cinema della galleria.

Una mostra concepita come approfondimento su una parte della ricerca fotografica di Barbieri rispetto a quella che già nel 1968 lo collocò “tra i quattordici migliori fotografi di moda al mondo” nella classificazione della rivista Stern.

“A metà fra reportage, etnofotografia e fotografia di moda, afferma la curatrice nel testo di accompagnamento alla mostra, Barbieri, cercando la verità di quei luoghi, ha creato immagini iconiche memorabili”, così come nella sua esplorazione sul tema del nudo e dell’erotismo “anche il corpo, soprattutto quello maschile, viene concepito come uno strumento per investigare l’anima”.

Dopo i progetti espositivi dedicati a Giovanni Gastel, a Francesca Woodman e a Guy Bourdin, Al Blu di Prussia e Maria Savarese continuano questo racconto della fotografia internazionale con Gian Paolo Barbieri, per la prima volta in mostra a Napoli grazie ad una collaborazione tra la Fondazione Mannajuolo e la Fondazione Gian Paolo Barbieri che, dal 2016, lavora alla conservazione, tutela, gestione, archiviazione e catalogazione dell’immenso patrimonio artistico del suo fondatore.

 

“Una luce sul Mar Tirreno che accarezza dolcemente le sue acque e che rifugia preziose bellezze, Napoli è l’unica città mai affondata nel naufragio della civiltà antica.
Ritrovarmi circondato da così tanta bellezza, accompagna ancor più il mio onore di essere rappresentato da questi luoghi e in particolare da una realtà come quella di Al Blu di Prussia, un incontro perfetto tra tutte le arti che mi fa sentire a casa.”

Gian Paolo Barbieri, settembre 2022

Fuori dal tempo

Dopo i progetti espositivi dedicati a Giovanni Gastel, Francesca Woodman, Guy Bourdin, Al Blu di Prussia prosegue questo racconto sulla fotografia internazionale dedicando la prima personale a Napoli a Gian Paolo Barbieri, realizzata grazie alla collaborazione fra la Fondazione Mannajuolo e la Fondazione Gian Paolo Barbieri che dal 2016 compie un meticoloso lavoro di conservazione, tutela, gestione, archiviazione e catalogazione dell’immenso patrimonio artistico del suo fondatore.

Nei due spazi principali della galleria si articolano diciotto grandi fotografie, alcune, tratte dalla “Trilogia del mare”, Madagascar, Tahiti Tattoos, Equator, della fine degli anni novanta, altre da Dark Memories, pubblicate in un volume di Skira del 2013.

Ventiquattro polaroid quasi tutte inedite, scattate per lo più alle Seychelles fra il 1989 e il 2006 sono allestite, invece, nel corridoio di accesso alla sala cinema dello spazio espositivo, dove viene proiettato il documentario Il Magnifico artificio, con la regia di Francesco Raganato, realizzato per Sky Arte nel 2014.

Gian Paolo Barbieri nasce a Milano nel 1935, da una famiglia di grossisti di tessuti: il negozio del padre, il cinema, il teatro, con Milano, Roma, Parigi, sono i contesti in cui si forma. Attratto sin da giovanissimo dal cinema noir americano degli anni quaranta e cinquanta, fondò con alcuni amici la compagnia Il Trio, trasformando la cantina di casa in una piccola Cinecittà ed in un palcoscenico teatrale. Sarà proprio questa passione a spingerlo a trasferirsi a Roma, dove iniziò a frequentare subito attori e registi, primo fra tutti Luchino Visconti, ed a scattare, per mantenersi, fotografie ad aspiranti giovani attori e dive. Deluso da questo ambiente, rientrò a Milano, per partire di nuovo dopo qualche mese per Parigi, convocato ad un colloquio di lavoro come assistente di Thomas Kublin, fotografo di “Harper’s Bazaar”. Era il 1964, e dopo venti giorni, durante i quali imparò tutto quello che c’era da apprendere sulla fotografia, tornò a Milano, dove aprì il suo primo studio fotografico in viale Majno iniziando a pubblicare i primi servizi fotografici su “Novità”, rivista che dal 1966 diventerà “Vogue Italia” ed a seguire sulle edizioni americana, tedesca, francese di Condè Nast.

Lavorando con i principali stilisti, Armani, Valentino, Saint Laurent, VersaceDolce & Gabbana, Ferrè, solo per citarne alcuni, ritraendo icone come Verushka, Iman, Audrey Hepburn, Jerry Hall, Pat Cleveland ed intessendo con alcune modelle, come Isa Stoppi, Benedetta Barzini, Marina Schiano, Marpessa, veri e propri sodalizi creativi, Barbieri si impose fra i più grandi fotografi di moda al livello internazionale. Circondato da nomi del calibro di Avedon, Bourdin, Newton, Hiro, fu classificato già nel 1968 dalla rivista “Stern” come uno dei quattordici migliori fotografi di moda al mondo, autore di uno stile inconfondibile, di rarefatta eleganza, “in grado di sedurre, e di scoprire l’occhio dell’anima”[1]. Immagini in cui la donna diventava un mito irraggiungibile, fuori dal tempo, costruite su derivazioni culturali tratte dal cinema, dalla pittura, dal teatro, dall’architettura, dalla letteratura, dall’arte classica.

Barbieri sin dall’inizio ha radicalmente innovato l’impostazione della fotografia di moda attraverso un uso sofisticato della luce e soluzioni rivoluzionarie per l’epoca, portando, ad esempio, la donna fuori dallo studio fotografico o utilizzando l’uomo come modello per la prima volta nella storia di “Vogue”.

Ciò nonostante, alla fine degli anni’ 80 sentì il bisogno di allontanarsi e partire per esplorare paesi lontani e conoscere da vicino altri popoli. Di sicuro determinante fu il cambiamento delle scelte artistiche operate da “Vogue Italia” con l’arrivo di Franca Sozzani ed il maggior spazio dato ai fotografi stranieri, insieme al maturare di nuove esigenze personali e al desiderio di rigenerarsi al contatto con la natura per ritrovare sé stesso.

Rifugiandosi nei mari del Sud, fu lì che sviluppò le proprie ricerche attraverso lo studio delle popolazioni locali, dando vita a vere e proprie esplorazioni fotografiche che confluirono nei tre volumi editi poi da Tachen, Madagascar del 1997, Tahiti Tattoos del 1998 (pubblicato una prima volta da Fabbri Editore nel 1989) ed Equator del 1999, da cui sono tratte le immagini del nucleo principale di questa mostra.

A metà fra reportage, etnofotografia e fotografia di moda, Barbieri, cercando la verità di quei luoghi, ha creato immagini iconiche memorabili, come quella del grande uovo fossile di uccello elefante abbracciato da un poderoso indigeno, tratta da Madagascar, che veicola l’esposizione. Oppure altre in cui, da grande autore di ritratti, ha immortalato uomini, donne, bambini, personaggi fuori dal tempo, ai quali si avvicinava con discrezione come un fotografo – viaggiatore di fine ‘800 per la prima volta in territori sconosciuti, cercando di comprenderne l’interiorità, l’anima, la dolce malinconia anche in uno sguardo, come nel caso del giovane Andrè, fotografato nel 1984 alle Seychelles.

Lontane da qualsiasi concessione al pittoresco, ricreando la natura in maniera molto essenziale, grafica, pulita, queste fotografie si impongono per la loro perfezione formale e, come afferma Michel Tournier riguardo a quelle del Madagascar, per la loro “consustanzialità”, che emerge dal bianco e nero, che ci restituisce l’immagine dell’isola come il Paradiso terrestre prima del peccato, la cui sostanza grigia è “il fango originario della creazione”[2].

In questo desiderio di ricerca di autenticità si colloca anche il suo lavoro sui tatuaggi polinesiani, forse il lavoro meno esotico, dedicato “all’arte destinata a distruggersi insieme alla pelle che la indossa”[3]. A differenza del suo amato Gauguin, che fu tra i primi a raccontare l’impatto visivo dei corpi decorati degli indigeni polinesiani, rimanendone impressionato o come lui stesso diceva, “ossessionato”, Barbieri si approccia a questi corpi con rispetto, consapevole di una missione ben precisa, quella di conservare un frammento di memoria prima che si perda per sempre. Il lavoro fotografico polinesiano si trasforma così in un vero e proprio viaggio alla scoperta delle radici e della tradizione ancestrale di un popolo, sottolineando la potenza del linguaggio del corpo e delle storie incise che essi indossano. E’ ”la pelle che parla. Senza nessun contenuto di segretezza, il tatuaggio polinesiano ricopre ostentatamente un corpo poco vestito, anzi si può dire che abbiglia il corpo al posto del vestito”[4]. Di fronte a quella forza che emerge dai corpi plastici, scultorei, nervosi, vibranti di energia, da una stretta di mano o da un torace quasi marmoreo, l’autore è consapevole che sta immortalando con i suoi scatti la storia di un popolo.

Nella sua ricerca fotografica molteplici sono state le influenze che ha tratto dall’amore e dalla sua conoscenza dell’arte. Dal cinema americano degli anni ’40 e ’50, a quello di Buñuel e di Luchino Visconti, dai maestri della fotografia come Bailey, Man Ray, Horst P. Horst e Cecil Beaton, ai pittori come Gauguin, Rousseau il Doganiere, George Grosz, Magritte, Hopper, fino a suggestioni da Aldo Mondino, da Caravaggio e dal Barocco, di cui ha condiviso il sentimento del tragico, il naturalismo, la tendenza all’estasi, l’amore per la natura morta, o per meglio dire, in posa, “in un gioco di echi e di rimandi virtualmente illimitato e inesauribile, fra citazioni letterali e ricordi più o meno vaghi”[5].

A partire dagli anni duemila, Barbieri ha iniziato una ricerca sul tema del nudo e dell’erotismo, in cui anche il corpo, soprattutto quello maschile, viene concepito come uno strumento per investigare l’anima. Questa indagine è confluita in due libri Skin del 2015 e Dark Memories del 2013, uno dei libri più importanti e avversati della storiografia fotografica del nostro tempo, da cui sono tratte le quattro grandi foto allestite nella prima sala della galleria.

Eleganti, scultorei, mai volgari, questi uomini ritratti esprimono “una filosofia del piacere che invita all’arte di amare senza peccati né indulgenze”[6], con libertà e contro ogni moralismo e, nella loro bellezza statuaria, rimandano ad evidenti riferimenti all’arte in ogni sua declinazione. Il suo punto di vista è chiaro: “le memorie oscure o, forse, buie albergano nei cuori. Ciascuno ha le sue e queste evocate sono trasversali alla nostra vita attuale”[7].

Le ventiquattro polaroid che chiudono il percorso espositivo, sono una piccola selezione tratta dalle oltre 3000 istantanee conservate in archivio. Consapevole di quanto fosse necessario storicizzare questa sua produzione specifica, la Fondazione sta portando avanti dal 2016 un meticoloso lavoro di catalogazione, archiviazione, digitalizzazione delle migliaia di immagini recuperate soprattutto nella libreria di Barbieri e da lui usate spesso come segnalibri. Da sempre legato alla polaroid, che utilizzava soprattutto come strumento per testare i suoi set, ha creato pezzi unici di raffinata bellezza, calore e colore, su cui talvolta scriveva anche piccoli messaggi, come nel caso dell’annotazione posta in basso nella delicata immagine di orchidea scattata alle Seychelles nel 1989, “un abbraccio prima della partenza, 8 aprile 1989”.

Quasi un rimando alle parole di Antonio Tabucchi, scritte a corredo delle sue fotografie in un libro edito da Pomellato nello stesso anno, in cui tracciando vere e proprie mappe del desiderio durante alcuni giorni piovosi in una città del Nord, lo scrittore ha immaginato la partenza di un fotografo verso mari e terre lontane, accompagnato da una guida che gli indicò la strada fino ad un certo punto e ad un tratto, fermandosi, disse: “quello è il cuore del Sud e quel territorio mi è vietato. Solo a te spetta di visitarlo, ma dovrai annotare tutti i fatti meravigliosi che ti accadranno. Buona fortuna giovane straniero[8]”.

Maria Savarese

[1] M.A. Accinno, La fotografia deve dare voce a chi non riesce ad averla”, intervista a Gian Paolo Barbieri, “Rolling Stone Black Camera”, aprile 2021.

[2] M. Tournier, La sostanza grigia del Madagascar: le fotografie di Gian paolo Barbieri, in Madagascar, Tachen, 1997

[3] M. Corgnati, In viaggio…, in Gian Paolo Barbieri, Federico Motta Editore, 2007.

[4] M. Tournier, Quando la pelle parla, in Tahiti Tattoos, Tachen, 1998.

[5] M. Corgnati, Arte, in Gian Paolo Barbieri, Federico Motta Editore, 2007.

[6] P. Bertelli, Gian Paolo Barbieri. Sulla fotografia della bellezza, in Skin, Silvana Editoriale, 2015.

[7] M. Rebuzzini, Happy moments, in Dark Memories, Skira, 2013.

[8] A. Tabucchi, The Maps of Desire. A journey recounted by Antonio Tabucchi observed by Giampaolo Barbieri, Pomellato, Idea Books, 1989.

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